L’obiettivo della fecondazione in vitro, nell’ambito della cura dell’infertilità di coppia, è quello di ottenere un bambino sano, possibilmente nel più breve tempo possibile. Le cause di mancato impianto degli embrioni sono molte, ma un ruolo rilevante riveste la anormalità genetica del prodotto del concepimento. Si stima che il 20-80% degli embrioni umani sia aneuploide [1]. Negli ultimi 30 anni si sono tentate diverse strade per una valutazione genetica dell’embrione prima dell’impianto, sia per evitare la trasmissione di malattie monogeniche (la cosiddetta PGT-M) sia per escludere dall’impianto embrioni geneticamente anomali, che in genere portano a mancato impianto o ad aborto precoce (PGT-A).
Tutti i metodi utilizzati per valutare lo stato genetico dell’embrione fino ad oggi si sono basati sul prelievo diretto di materiale genetico, come la biopsia dei globuli polari per ovociti o zigoti, o come la biopsia di blastomeri o di cellule del trofoectoderma per embrioni allo stadio di clivaggio o blastocisti [2,3].
Queste metodiche di prelievo prevedono però alcune criticità. In primo luogo le tecniche di micromanipolazione non sono esenti da rischi di danneggiamento dell’embrione. Si calcola che le percentuali di impianto di ogni embrione biopsiato si riducano, anche se euploidi, e questo naturalmente solleva interrogativi sulla positività del bilancio tra rischi e benefici [4]. In secondo luogo le tecniche di biopsia prevedono una attrezzatura particolare, in particolare il laser, che aumentano i costi di gestione. In aggiunta occorre personale esperto, che abbia avuto un training adeguato.
La diagnosi preimpianto ha subito nel tempo periodi di esaltazione e periodi di feroci critiche. La diagnosi del globulo polare non permette la valutazione del contributo paterno, e questo rappresenta un grosso limite. La biopsia eseguita in 3a giornata, allo stadio di clivaggio, ha il grosso limite legato alla importante attività di rimaneggiamento genetico, per cui la biopsia di 1-2 cellule è esposta a un alto rischio di errore [5]. Inoltre, è possibile che la rimozione di cellule sia in grado di ridurre la vitalità embrionaria fino a oltre il 30% [6]. La biopsia allo stadio di blastocisti è l’unica ad oggi effettuata, con il prelievo di alcune cellule del trofoectoderma, anche se le potenzialità di impianto degli embrioni sono comunque ridotte in una certa misura, dipendendo anche dall’abilità dell’operatore [4].
In considerazione delle problematiche determinate dalle biopsie, la scoperta del DNA fetale nel mezzo di coltura e nel blastocele ha creato interesse relativo alla possibilità di effettuare una diagnosi non invasiva (niPGT) [7].
Durante la formazione della blastocisti, le cellule embrionarie si differenziano in due linee diverse, quelle della inner cell mass, che daranno origine all’embrione vero e proprio, e quelle del trofoectoderma, che daranno origine alla placenta. La blastocisti al suo interno vede la formazione di uno spazio con del liquido, il cosiddetto blastocele. Nel corso della blastocentesi, cioè la pratica di prelevare il liquido del blastocele, una pipetta da ICSI attraversa lo strato del trofoectoderma dal lato opposto alla inner cell mass, e il fluido viene aspirato con cura, fino a che la blastocisti è collassata. Il collasso della blastocisti è per altro un evento che avviene in prossimità dell’uscita della blastocisti dalla zona pellucida (Hatching). L’aspirazione del blastocele non è dannosa per l’embrione, e viene inoltre effettuata in molti Centri prima della vitrificazione, per ridurre la formazione di cristalli di ghiaccio durante la criopreservazione [8].
Ci sono due importanti requisiti per potere ottenere un risultato applicabile alla pratica clinica quando si utilizzano fonti di DNA per una diagnosi preimpianto. Il primo è che si ottenga in maniera costante e riproducibile l’analisi del DNA, cioè che la metodica sia in grado di fornire adeguata sensibilità e specificità. La seconda è che il DNA sia effettivamente rappresentativo dello stato dell’embrione. Per quanto riguarda la PGT-M, l’analisi del blastocele ha incontrato finora difficoltà significative nell’isolamento e l’amplificazione del DNA, a causa della bassa quantità del DNA contenuto, e anche delle alterazioni che questo presenta [9]. Anche la concordanza con i risultati della biopsia del trofoectoderma è risultata finora limitata, suggerendo che il DNA del blastocele possa essere in parte degradato [10].
La PGT-A può essere eseguita utilizzando diverse metodiche, come la PCR, la CGH, la SNP e la NGS [11]. In questo caso permane la difficoltà a ottenere sufficiente DNA per effettuare una analisi, ma la concordanza dei risultati rispetto alla biopsia del trofoectoderma si attesta tra il 94 e il 96% per i singoli cromosomi, scendendo però al 66% per tutto il genoma secondo il gruppo di Gianaroli [12]. Altri gruppi hanno invece trovato concordanze molto più basse, come Capalbo [13] e Tobler [14].
La blastocentesi è sicuramente attraente dal punto di vista concettuale, ma esistono diverse difficoltà ancora da superare. In primo luogo, la quantità di DNA presente nel blastocele varia significativamente tra embrione ed embrione, e in diversi casi non è riscontrabile in quantità sufficiente per l’amplificazione. In secondo luogo, è critico identificare la modalità corretta di estrazione del fluido e il quantitativo da analizzare, in quanto se si passa da 0,3 a 1 microlitri ci possono essere differenze nell’efficienza dell’amplificazione [15]. La blastocentesi deve pertanto essere ancora standardizzata sia per quello che riguarda la metodologia di ottenimento del campione, sia per la modalità di amplificazione e di analisi.
Una potenziale alternativa che sta ricevendo molta attenzione è l’analisi del mezzo utilizzato per la coltura. Il mezzo di coltura usato per le blastocisti sembra fornire più DNA del fluido del blastocele, diventando quindi una fonte di materiale anche meno invasiva del blastocele, in quanto non prevede nessuna micromanipolazione [16]. Il DNA di origine mitocondriale e genomica si può trovare nel mezzo di coltura già dal 2°-3° giorno di sviluppo embrionale, ma aumenta significativamente in 4a e 5a giornata, escludendo anche le eventuali contaminazioni [17]. La zona pellucida degli embrioni in fase di preimpianto è permeabile a diverse macromolecole, ed è possibile che il DNA possa anch’esso attraversarla. In ogni caso il DNA genomico è poco e spesso degradato, suggerendo che possa derivare da meccanismi di morte cellulare [18].
L’apoptosi cellulare è frequente allo stadio di blastocisti, molto meno in stadi più precoci, ma un dato interessante è che la concentrazione di DNA a doppia elica nel mezzo di coltura in alcuni lavori sembra più alta nei campioni derivanti da embrioni di inferiore qualità rispetto a quanto rinvenuta nei campioni di embrioni di ottima qualità. Allo stesso modo il DNA mitocondriale ritrovato è maggiore nei campioni di embrioni con alta frammentazione o provenienti da donne di età avanzata [19]. In un ampio studio multicentrico, che ha coinvolto più di 1300 blastocisti, il gruppo di Simon ha evidenziato un’alta concordanza tra l’analisi del mezzo di coltura e la biopsia del trofoectoderma [20].
È rilevante comprendere se il DNA trovato nel blastocele o nel medium derivi da processi fisiologici o patologici, cioè se il DNA si trovi più facilmente in campioni da embrioni di buona morfologia, che hanno quindi più cellule, o da embrioni poco vitali, che vanno più facilmente incontro a morte cellulare. Al momento gli studi hanno dato risultati contrastanti. Zhang e il suo gruppo [9] non hanno rilevato associazioni tra morfologia e quantità di DNA, mentre altri gruppi, come quello di Capalbo, hanno riportato una migliore efficienza di rilevazione nei campioni provenienti da blastocisti di buona qualità [13]. Al contrario, il gruppo di Magli ha riportato maggiori concentrazioni di DNA in campioni da blastocisti con diagnosi di aneuploidie alla biopsia del trofoectoderma [12]. Lo stesso gruppo quando ha trasferito embrioni in utero ha mostrato una più alta percentuale di gravidanze con embrioni in cui era fallita la determinazione del DNA rispetto a quelli con più alto successo di amplificazione. Questa rappresenta quindi una questione ancora aperta.
Prima che la niPGT possa essere usata clinicamente occorre inoltre una precisa standardizzazione sia delle condizioni di coltura sia del prelievo del campione. Gli studi che hanno indicato che il DNA si accumula con la coltura prolungata hanno suggerito la possibilità di raccogliere il mezzo di coltura in 6a o 7a giornata. D’altro canto, la coltura prolungata, soprattutto alla 7a giornata, potrebbe essere dannosa per la sopravvivenza degli embrioni e creare maggiori difficoltà alla crioconservazione. Nella pratica clinica, inoltre, ci sono mezzi di coltura che vengono cambiati in giornata 3 e altri che invece vengono mantenuti per tutti e 5 i giorni. Occorre capire se la perdita del DNA dei primi tre giorni, che avviene cambiando il mezzo di coltura, sia un vantaggio o uno svantaggio. Inoltre, occorre evitare accuratamente le contaminazioni di DNA esogeno, che derivino dalla madre o dagli operatori [21].
Sicuramente l’eliminazione della biopsia embrionaria porterebbe vantaggi pratici ed economici, con la riduzione dei rischi per gli embrioni. Tuttavia, l’affidabilità delle strategie di niPGT, in relazione alle possibilità di amplificazione e alla concordanza con i risultati ottenuti con la diagnosi classica, varia molto a seconda degli studi effettuati. Non è ancora chiaro quale metodo di amplificazione e di indagine possa essere il più adatto. Probabilmente, le tecniche che preservano di più la lunghezza dei frammenti di DNA sono le più adatte, in quanto l’ulteriore frammentazione di DNA già danneggiato può rendere inconclusiva l’indagine. Occorrerà anche rendere molto preciso il processo di inseminazione, coltura e prelievo in modo da evitare le contaminazioni di DNA non appartenente all’embrione [22].
In conclusione, l’utilizzo della niPGT al momento non può essere di utilità clinica, serviranno ulteriori studi e l’ottimizzazione della sua efficacia prima di abbandonare lo stadio della sperimentazione.
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